TOP
psa cinghiali

Peste Suina Africana, nessun pericolo per la salute umana

La PSA può compromettere la filiera suina italiana e le sue esportazioni. Ma serve ribadire una cosa: questo virus non è trasmissibile all’uomo e non rappresenta un rischio per la nostra salute.

La Peste Suina Africana (PSA) è arrivata nell’Italia settentrionale due anni fa, quasi in sordina, con la scoperta di un cinghiale infetto in provincia di Alessandria. Oggi i casi accertati sono oltre mille e c’è allarme fra gli allevatori, perché questo virus è capace di passare con facilità dai cinghiali ai suini e cure non ce ne sono, come pure non esistono vaccini per prevenirla.

Intanto sgombriamo subito il campo da eventuali equivoci: la peste suina, classica o africana che sia, non è trasmissibile all’uomo. Non siamo di fronte a una zoonosi e non corrono rischi gli addetti agli allevamenti come pure non c’è alcun pericolo nel consumare salumi e carne suina. Tanto più che nel caso di suini colpiti (alcuni casi sono già avvenuti, prima in Campania e Calabria, più recentemente in Lombardia) scattano consolidate e rigide misure di polizia veterinaria che prevedono il vincolo sanitario dell’allevamento coinvolto e l’abbattimento di tutti gli animali che possono aver contratto l’infezione. Al contempo, si blocca la movimentazione di animali e si definisce un’area di sorveglianza di dieci chilometri attorno al focolaio, dove i servizi veterinari verificano attentamente l’eventuale presenza del virus. 

Sebbene non ci siano pericoli per l’uomo, il perché di tante precauzioni, che richiedono l’investimento di molte risorse, risiede nelle peculiari caratteristiche di questo virus e nelle conseguenze, spesso mortali, che può avere solo nei suini. Partiamo allora dal virus responsabile della malattia, che appartiene alla famiglia degli Asfaviridae, genere Asfivirus, la cui caratteristica, a differenza di quello della peste suina classica, è quella di non stimolare la formazione di anticorpi. La differenza non è di poco conto, visto che parte da questa peculiarità la difficoltà, ancora oggi non superata, di allestire vaccini efficaci.

#PesteSuinaAfricana: l’uomo non può infettarsi né dopo contatto diretto con gli animali ammalati, né indirettamente consumando #carne o prodotti come #salumi e #insaccati. Condividi il Tweet

Si tratta di virus con elevate caratteristiche di “specie-specificità”, in quanto la sua replicazione si svolge esclusivamente nei suidi, famiglia di mammiferi ai quali appartengono i suini e i cinghiali. Quindi l’uomo non può infettarsi né attraverso il contatto diretto con gli animali ammalati e nemmeno indirettamente con il consumo di carne o di prodotti trasformati, come salumi e insaccati.

Se, a dispetto di ogni precauzione, il virus riesce a superare le barriere di biosicurezza, le conseguenze non si fermano al singolo allevamento, ma coinvolgono l’intera filiera. Già la sola presenza del virus nei cinghiali ha indotto alcuni paesi a chiudere le loro frontiere alle nostre carni suine e ai nostri salumi e insaccati. Dopo la comparsa di alcuni focolai in allevamenti della Lombardia, dove la suinicoltura è diffusa, c’è molta preoccupazione per un possibile allargamento dei casi di infezione. Il fermo produttivo e il blocco dell’export potrebbero mettere in forse il futuro di una filiera produttiva di grande valore economico (l’insieme supera i dieci miliardi di euro) e sociale, con riflessi pesanti sull’occupazione.

L’efficienza dei servizi veterinari italiani è fuori discussione e sta facendo quanto è nelle sue competenze per evitare il diffondersi della PSA, garantendo al contempo, e come sempre, la perfetta sicurezza di carni e prodotti trasformati. Ma l’incontrollata diffusione dei cinghiali, che secondo alcune stime supererebbe i due milioni di esemplari, rischia di vanificare ogni sforzo di contenimento del virus. Il numero dei cinghiali infetti è inesorabilmente destinato ad aumentare e con esso aumenteranno le possibilità che il virus possa introdursi negli allevamenti. Un problema che si può e si deve evitare con il controllo dei suini selvatici. Rinunciando se del caso, fintanto che sarà necessario, anche agli allevamenti di suini all’aperto in forma di pascolo brado o semibrado.

In Sardegna, che la PSA la conosce dal 1978, lo hanno fatto, e come ricorda  Giuseppe Pulina, Professore di Etica e Sostenibilità delle produzioni animali all’Università di Sassari e Presidente di Carni Sostenibili: “Dal 2018 non si trovano più sieropositività negli  nell’allevamenti e dal 2019 anche negli animali selvatici. Pertanto il virus PSA in Sardegna non circola più”, aggiunge il Professore. Per arrivare a questo, oltre alle misure di polizia veterinaria e di biosicurezza, occorre una sorveglianza attiva su tutto il territorio nazionale soprattutto sugli animali selvatici e sull’allevamento di suini all’aperto e allo stato brado, vettori principali dell’infezione. Tutto questo comporta un enorme sforzo: si deve muovere tutta la filiera (dai mangimisti ai trasformatori) per consentire una rapida messa sotto controllo della circuitazione virale, (sapere dove si trova il virus e quali sono i principali canali di trasmissione), elaborare robusti modelli epidemiologici, soprattutto di previsione, essere tempestivi nelle chiusure e rapidi negli abbattimenti, e se necessari anche preventivi.” 

L'incontrollata diffusione dei #cinghiali positivi alla #PesteSuinaAfricana rischia di vanificare gli sforzi di contenimento del #virus, aumentando le possibilità che raggiunga gli #AllevamentiSuinicoli. Condividi il Tweet

Nel frattempo, conclude il prof Pulina: “il mondo scientifico si muove verso un vaccino e verso la cisgenetica che, copiando un gene di resistenza dai facoceri, potrà mettere a disposizione genotipi resistenti alla patologia che potrà essere dichiarata endemica.”

Premesso che le misure di biosicurezza costituiscono non solo un valido sistema di contrasto alla diffusione del virus della Peste Suina Africana, ma un efficace presidio di tutela della salute e del benessere animale in genere, oltre alla limitazione degli allevamenti bradi o semibradi che presentano un maggior rischio epidemiologico rispetto agli allevamenti effettuati in ambienti confinati, è opportuno privilegiare filiere di produzione chiuse in cui tutte le fasi di produzione sono sistematicamente verificate e che adottano forme avanzate di biosicurezza e controlli aggiuntivi rispetto a quelli già messi in atto dal Servizio Veterinario Ufficiale.

Il Progetto “Carni Sostenibili” vuole individuare gli argomenti chiave, lo stato delle conoscenze e le più recenti tendenze e orientamenti tecnico scientifici, con l’intento di mostrare che la produzione e il consumo di carne possono essere sostenibili, sia per la salute che per l’ambiente.