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Intensivo è bello

Il modello di allevamento italiano, che si può definire protetto, o professionale, più che intensivo, risponde al meglio al benessere animale e alla riduzione dell’impatto ambientale, assicurando cibo di qualità a prezzi accessibili.

Cambiamento climatico, inquinamento, polveri sottili. La colpa? Secondo la grancassa mediatica, degli allevamenti intensivi, ovviamente. I più ne sono convinti, persuasi da una campagna martellante e continua di demonizzazione di ogni prodotto di origine animale, carne in primo luogo. Che sarebbe poi di infima qualità, perché prodotta in “allevamenti lager”, come piace definirli ai detrattori della zootecnia intensiva con un paragone a dir poco inopportuno. Ma le cose, poi, stanno davvero così?

Bisognerebbe per prima cosa intendersi sul significato di zootecnia intensiva e comprendere se questa definizione si attaglia alle condizioni degli allevamenti italiani. Il timore, anzi la certezza, è che ci sia un equivoco di fondo nella conoscenza della realtà, distorta da una visione bucolica e romantica dell’agricoltura (e da una certa ignoranza). Prendiamo il caso degli allevamenti bovini. Negli USA, per fare un paragone, le aziende “intensive” quando sono “piccole” contano la presenza di migliaia di animali, dai mille agli ottomila.

GLI ALLEVAMENTI DI BOVINI

Poi vediamo la “formula” di allevamento. In Italia, stalle chiuse si incontrano di rado. Accade soprattutto in montagna, dove gli animali sostano per ripararsi dai rigori invernali, mentre nel periodo estivo sono al pascolo o in alpeggio, laddove questa pratica è possibile. Nella maggior parte degli altri casi, si tratta di stalle definite a “stabulazione libera”, dove gli animali sono liberi di uscire negli spazi all’aperto, come pure di riposare al riparo. Ma torniamo al pascolo. L’immagine del bovino che bruca l’erba o riposa all’ombra di un albero suggerisce un’idea di benessere. Immagine però distorta da una visione antropica. Se non accuditi dall’uomo quegli stessi bovini rischiano la fame su pascoli poveri e vivono nel terrore di essere aggrediti da qualche animale selvatico.

GLI ALLEVAMENTI DI SUINI

Considerazioni analoghe di possono fare per i suini, sebbene in questo caso siano più frequenti le condizioni di allevamento al chiuso. Le immagini di ambienti sporchi, polverosi e sovraffollati sono però frutto di una narrazione distorta, diffusa da efficaci campagne promosse da associazioni animaliste. Alle quali va riconosciuto il merito di denunciare condizioni di allevamento anomale e come tali perseguibili per legge. Ma che commettono l’errore, voluto, di generalizzare, attribuendo a un episodio la valenza di una condizione generale e diffusa. Negli allevamenti, che sarebbe meglio definire professionali piuttosto che intensivi, sono rispettate le norme sul benessere animale. Non solo per evitare le sanzioni che ne deriverebbero, ma perché animali in condizioni ottimali sono anche più produttivi.

Anche nel caso dei suini l’allevamento brado, o per meglio dire semi-brado, raccoglie l’apprezzamento di una visione antropomorfa. Peccato che possa coincidere con una minore tutela della salute degli animali. I recenti casi di Peste Suina Africana, malattia incurabile e dolorosa, ne sono un esempio. Laddove questo virus è presente, solo gli allevamenti al chiuso, protetti da severe barriere sanitarie, possono scongiurare il pericolo. Allevamenti al chiuso, ma non per questo “intensivi”. In Italia gli allevamenti suinicoli non hanno nulla a che vedere con le megalopoli suine proposte in Cina.

GLI ALLEVAMENTI AVICOLI

Come per i suini, anche gli allevamenti avicoli sono in prevalenza al chiuso. Protetti dagli uccelli selvatici che trasmettono l’influenza aviaria e altre temibili patologie. Protetti dai selvatici che altrimenti ne farebbero un sol boccone. Sicuri in ambienti climatizzati estate e inverno, alimentati con puntigliosa precisione, con spazi sufficienti a garantire il loro benessere. Anche in questo caso la “felicità” della gallina intenta a razzolare sull’aia è l’immagine di un agricoltura romantica che se tradotta in realtà diffusa avrebbe solo conseguenze negative. A iniziare dal fatto che un petto di pollo sarebbe un piatto riservato a un consumatore abbiente. Anche in questo caso la realtà italiana descrive allevamenti professionali, più che intensivi.

QUANTO INQUINANO DAVVERO GLI ALLEVAMENTI

Resta da affrontare il tema ambientale. Premesso che l’intera zootecnia pesa solo per circa il 6% sull’emissione di CO2, dunque assai meno di trasporti (24,7%) e industrie ed energia (55%), gli allevamenti professionali consentono di ottimizzare il rapporto fra produzione e impatto ambientale. In altre parole, con un minor numero di animali si ha una produzione equivalente a quella ottenibile con un maggior numero di animali “in libertà”. Sprecando meno risorse si riducono le emissioni indesiderate, ma al contempo si può ottimizzare l’alimentazione, riducendo le emissioni di ogni singolo animale. Vale in particolare per i bovini, la cui fisiologia del digerente porta alla formazione di metano, la cui quantità può essere ridotta al minimo proprio grazie all’alimentazione.

L’allevamento professionale offre anche la possibilità di gestire al meglio ciò che “residua” dal metabolismo degli animali. Fertilizzanti biologici che arricchiscono il terreno e riducono così l’uso della chimica e poi “materia prima” per la produzione di energia.

Ancora convinti che gli allevamenti intensivi, pardon, protetti, siano il “male assoluto”?

Giornalista professionista, laureato in medicina veterinaria, già direttore responsabile di riviste dedicate alla zootecnia e redattore capo di periodici del settore agricolo, ha ricoperto incarichi di coordinamento in imprese editoriali. Autore di libri sull'allevamento degli animali, è impegnato nella divulgazione di temi tecnici, politici ed economici di interesse per il settore zootecnico.